All’ultima edizione della Mostra di Venezia, qualche settimana prima dell’esplosione del Weinstein-gate, vinceva il Leone d’argento per la regia e il premio per la migliore opera prima L’affido – Una storia di violenza, tesissimo dramma familiare del francese Xavier Legrand che approda sui nostri schermi con nove mesi di ritardo. Meglio tardi che mai. Salutato, a ragione, come uno dei migliori manifesti contemporanei contro la violenza sulle donne, il film è in realtà un doloroso spaccato di vita familiare che indaga l’aggressività domestica in modo più completo, più profondo.

Il matrimonio fra Miriam (Lea Drucker) e Antoine (Denis Ménochet) è finito male. Il figlio Julien (Thomas Gioria) vuole restare con la madre e tenta di ridurre a zero i rapporti con il padre. Ma il giudice, donna, opta per l’affido congiunto. La tensione è palpabile. Perché il piccolo Julien ingaggia una guerra di silenzio ostile contro il padre? Perché Miriam è così spaventata?

La risposta, ne L’affido, arriva fin troppo presto. Legrand approccia la materia con sorprendente originalità: asciuga sia l’enfasi che il minutaggio, e in soli 90 minuti gioca una strategia che costruisce la tensione con le modalità di un thriller atipico. Senza sacrificare un silenzioso, quasi distaccato rispetto nei confronti della sua tematica.

L’ambiguità iniziale, anche solo apparente, innesca infatti un gioco di domande sulla verità che le parole spese in tribunale nascondono. Cosa sta all’origine di tanto disagio? Il giovanissimo figlio ha un piano quando prova a sabotare i tentativi del padre di entrare nella sua routine?

 

Lo spettatore può addirittura arrivare a chiedersi se i fatti non occultino qualcosa di più complesso. Legrand, del resto, non distribuisce troppi indizi. A far emergere nuove domande sono i silenzi, gli sguardi enigmatici.

Ma nella sua essenzialità, che è una delle chiavi della sua potenza espressiva, L’affido non vuole indulgere a una suspense filo-hitchcockiana, nata dal dilatarsi dei tempi del racconto. E la verità piove improvvisa e terribile in un magistrale crescendo di violenza.

Proprio in quella scena finale, in cui il regista dà un vero saggio della sua cifra stilistica, si costruisce con tempismo inattaccabile il climax di tensione montante (qui sì con prestiti dal thriller) che scoperchia il reale.

Filmato ad altezza di bambino e con una fotografia naturalistica, che a tratti rende l’immagine slavata, il film esplode come una mina facendo a pezzi il putrescente ginepraio di una quotidianità familiare malata e pericolosa, mostrandone le ferite mai rimarginate.

In contrasto con la corporatura ancora minuta di Thomas Gioria nel ruolo di Julien, Legrand piazza a invadere lo schermo la fisicità corpulenta, fintamente poco espressiva di Denis Ménochet, sfruttandola nel modo migliore. Perché non è solo quando imbraccia un fucile che il padre-mostro fa paura: Ménochet riempie Antoine di imprevedibilità inquieta, i guizzi del suo sguardo rendono pericolosamente credibile la minaccia che trasuda dalla sua stazza. Il mostro fa davvero più paura quando non arriva da fuori, quando è già in casa?

Squarcio di micro sociologia dal valore sia artistico che sociale, L’affido mescola a suo modo (senza prestiti evidenti) pezzi di Kramer contro Kramer di Robert Benton e di Shining Stanley Kubrick. C’è il terrore, c’è l’orrore della colpa, ci sono i segni di piaghe che si rimargineranno a fatica. E c’è una voglia di normalità che, soprattutto per i minori, dovrebbe essere un diritto e a volte si trasforma in un miraggio. Pur senza puntare il dito contro una giustizia che, nel tentativo di conciliare senza imporsi, può peggiorare le cose e fare danni. Di quelli seri.



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